Dal Bresciaoggi
Di Roberto Bianchi
fotografia di www.ilariapoli.com
2 aprile 2017
Cimbergo, Cerveno, Ceto
E’ un po’ come si fa con certi quadri. Per vederli meglio vanno guardati da lontano. E’ la loro vista di insieme che dà l’emozione, e cattura; si pensi alle Ninfee, all’Orangerie. E’ solo da una certa distanza, lo si capisce, che si può collegare il loro miracolo che prende forma sulla tela, dove si vede il tempo che passa, inafferrabile eppure consistente, e la luce sotto forma di bagliori, ombre leggermente colorate, le nuvole, i riflessi. E infine, le ninfee stesse che davvero sembrano essere agitate da movimenti impercettibili sul pelo dell’acqua.
La loro immobilità incontrovertibile confligge vistosamente con la nostra percezione, perché si muovono, e lo vediamo perdio! Allo stesso modo, mentre in una sera di quegli inverni rigidi che in pianura nemmeno si conoscono più – e il cielo è terso e stellato – si percorre la strada che lungo la Valcamonica interseca qua e là con l’Oglio, affascina ed emoziona la vista di gruppi di luci incastonate nella montagna, quasi fossero presepi appiccicati sui costoni da una mano in vena di stupire.
Quasi fossero stelle cadute che si sono inchiodate nel posto sbagliato. Sono le luci dei villaggi della nostra montagna. Agglomerati di poche case, e pochi ad abitarci. E’ una visione, questa, fatta di macchie e pennellate che sembrano confuse, che sono i ricordi e immagini immaginate e che si racconta immediatamente la vita di coloro che in queste isole ci vivono. Sono “impressioni” che ci suggeriscono le condizioni di chi ci viveva decine di anni fa quando i mezzi di trasporto erano più rari, le strade più sconnesse, le esigenze più limitate, la vita più dura.
Un pezzo personale di quell’ordito è racchiuso nei racconti di mia zia che ci ha fatto la maestra elementare in questi posti e me ne raccontava per dirci quanto eravamo fortunati noi, col cesso e il riscaldamento in casa e la mamma per tutto. Negli anni Sessanta, gli anni che per il resto del paese sono stati quelli del boom economico industriale, i bambini qui d’inverno arrivavano a scuola coi “tròcoi”, gli zoccoli di legno malamente intagliati. Affrontavano il freddo resi intrepidi da colazioni ritenute corroboranti, perché costruite da tazze di caffè d’orzo corretto con abbondanti dosi di vino rosso nostrano, zuccherato in notevole quantità e un grosso tassello di burro fatto in casa.
Il pane vecchio, o la polenta avanzata, ci veniva sbattuto dentro e ne usciva una zuppa inebriante e fortemente calorica. Quando c’erano, i cappotti erano del famigliare verde militare, rivoltati più volte, spesso avevano servito pure la generazione precedente. Calzoni corti in ogni stagione per quei bambini che a turno portavano a scuola un grosso ciocco di legno che serviva per alimentare la stufa in classe. Non c’era un’amministrazione pubblica che sollevasse da tutti i problemi, bisognava fare da soli, e anche questo serviva a chiudere ulteriormente in sé quella comunità, obbligata dalla distanza dalle città ad essere autosufficiente in tutto.
Attraverso Viottoli stretti fra case che repentinamente sfociavano nei prati e nei boschi i bambini trascorrevano il tempo dell’infanzia, che era sempre piuttosto contratto, e apprendevano soltanto quei pochi elementi indispensabili per leggere e fare di conto. Tanto il loro destino era già ampiamente scritto prima che nascessero. Terra di agricoltura e pastorizia, questa. Di stalla e puzza di letame. Di isolamento. Di galline che ti entravano in cucina. Di topi che ti giravano di notte. Nessun bambino all’epoca era esentato dall’impegno quotidiano. Nessuno era troppo giovane per non doversi rendere utile. La condizione di Giotto che disegnava mentre accudisce e controlla le pecore, e che noi di città conoscevamo per via del fatto che era immagine stampata sulle scatole dei pastelli omonimi, quei ragazzini, che quei pastelli di marca nemmeno li avranno mai visti, la vivevano quotidianamente.
Nella bella stagione raggiungevano il pascolo, nella brutta lavoravano nelle stalle. Le mucche non conoscono né Natale, né Pasqua, né domenica e vanno munte ogni giorno: mungere è facile e s’impara subito. Non erano esentate nemmeno le mamme dal lavoro negli appezzamenti pianeggianti e così le vedevi col forcone in mano a rivoltare il fieno che essiccava, mentre il neonato dormiva un sonno irrequieto, fra le mosche e il suono dei campanacci di poche mucche, depositato in una cesta appesa al ramo di un albero. Un’altra macchia del mio quadro impressionista e costituito da una Natura che gli forniva tutto l’indispensabile e siccome esclusivamente alla Natura ci si poteva affidare erano solo le cose davvero necessarie a costituire oggetto di desiderio.
Questa abitudine diventava un’attitudine che poi avrebbe istruito ad un realismo che avrebbe aiutato, nell’età matura, ad affrontare e vincere le avversità di cui questa terra è prodiga. E a risparmiare usando il minimo di tutto, anche delle parole. Quando ci andavo, talvolta, con gli zii, soprattutto nella bella stagione mi colpiva la qualità dei doni con cui la Natura premiava quegli uomini che la servivano rispettosamente, i frutti del bosco: more, lamponi e mirtilli in grande quantità. I funghi. Le castagne. In cambio chiedeva dedizione assoluta: così come non c’era infanzia del tutto scanzonata, non c’era età da pensione, qui.
E gli anziani erano orgogliosi di continuare a fare qualcosa fino alla fine. Ce li ho pennellati negli occhi, e mi rendo conto che sembrano immagini scontate, i vecchi con la loro cicca all’angolo della bocca che trascinano gerle enormi, che li nascondono quasi del tutto, che capisci che da qualche parte c’è un uomo solo perché sai le gerle piene di fieno non vanno in giro da sole. Oppure intabarrati, col freddo. Era gente silenziosa, che la bocca l’apriva solo per lasciar sfuggire lo stretto indispensabile. In quegli anni qui nemmeno sapevano cos’era la tv che fra l’altro, per l’assenza di ripetitori, sarebbe stata impossibile da ricevere.
C’erano le “storie” , allora, alla sera, raccontate dai vecchi ai bambini nella stalla riscaldata del fiato delle mucche. C’erano le preghiere e rosari interminabili dall’improbabile latino per le vecchie. E, sorprendentemente per quella gente incolta, c’era qualche libro: Sue con i suoi misteri parigini, Manzoni, Hugo. Le storie d’appendice del Brigante Spiridione. Ora non sono poche le parti di questi luoghi che giacciono nell’abbandono. Andandoci a camminare talvolta si sente il rumore dei motori di strumenti meccanici, di motocross. Di fuori strada. Puoi trovarci i vuoti in plastica degli arditi della mountain. E allora, come si fa con le ninfee, meglio non avvicinarsi troppo. Meglio guardare da lontano. Da lontano anche nel tempo.
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